Lo slogan forse più noto dell’ex Presidente statunitense Donald Trump, come molti ricorderanno, era Make America Great Again, parole che probabilmente hanno contribuito non poco alla sua vittoria nel 2016 che lo ha portato ad essere il 45° Presidente degli Stati Uniti.
Non che gli Stati Uniti fossero deboli, visto il loro predominio economico, la loro leadership tecnologica, la loro potenza militare e la capacità di indirizzo “politico” nei confronti dei Paesi alleati. Ma, secondo “The Donald”, le precedenti amministrazioni avevano fortemente indebolito il prestigio americano a livello planetario, necessitando, quindi, di un “restyling” immediato e convincente. L’ex Presidente non ha mai fatto segreto di una certa “riluttanza” al rispetto delle regole e delle norme, spesso viste come “fardelli” pesantissimi, se non addirittura causa della perdita di competitività e di immagine del Paese.
Uno dei provvedimenti adottati, in quegli anni, dall’amministrazione repubblicana riguardava la regolamentazione bancaria: ritenendola troppo “rigida”, non in grado si supportare e aiutare la ripresa economica, si decise di allentarla, eliminando o rendendo più blandi i controlli a cui, periodicamente, il sistema bancario era sottoposto per valutare la capacità di superare eventuali situazioni problematiche (gli stress test). Nel concreto venne innalzato da $ 100MD a $ 250MD il limite che identificava una “grande banca” da una di “piccole-medie dimensioni”, con le secondo meno soggette a verifiche.
Sarà un caso, ma di fronte ai cambiamenti nel settore del Credito, messo alla prova dalle politiche di maggior rigore messe in atto dalla FED, come da altre Banche Centrali un po’ in tutto il mondo, il sistema bancario americano ha cominciato a dare preoccupanti segnali di crisi.
E’ ancora freschissimo il ricordo del fallimento della Silicon Valley Bank, salvata grazie all’intervento della First-Citizens Bank (senza dimenticare la crisi della Signature Bank), e già si è “consumato” un nuovo “crash”. Questa volta è toccato alla First Republic arrendersi all’evidenza, dopo che, la settimana scorsa, nel giro di pochissime sedute il titolo aveva perso il 75% del proprio valore, portando al 97% il crollo delle quotazioni da inizio anno, a causa fuga dei depositi di oltre $ 100 MD nell’arco di poche settimane, che hanno ridotto le giacenze di oltre la metà (erano $ 176 MD a fine 2022).
Si è reso, quindi, nuovamente necessaria una “procedura d’urgenza” per evitare il rischio contagio (i week end servono anche per questo…). Questa volta il “cavaliere bianco” porta il nome di uno delle banche più note al mondo, la JP. Morgan, chesi è fatta carico di circa $ 233 MD di attivi della banca, un ammontare che hanno portato la First Republic a diventare la 14° banca americana, pur essendo nata solo 38 anni fa (era il 1985). Una delle attività “core” dell’Istituto era l’erogazione di mutui residenziali; di questi, oltre il 60%, pare, era costituito da mutui cosi detti “interest only”, vale a dire con rimborso periodico solo della quota interessi, mentre la quota capitale veniva rimborsata alla fine. Quindi 2 “aggravanti”: essendo mutui stipulati negli anni in cui il denaro non costava praticamente nulla, i margini erano bassissimi. In più, il rientro delle erogazioni (e quindi il “ritorno” in circolo del capitale) non avveniva gradualmente, mese dopo mese, ma alla fine delle erogazioni, come noto a medio-lungo termine. E senza la “materia prima” è ben difficile svolgere qualsiasi attività, compresa quella creditizia (anzi, questa forse più di altre). Peraltro, JP Morgan ben conosceva il dossier First Republic, visto che era sostanzialmente la capofila del “pool” di Banche che erano intervenute, a marzo, con una linea di credito di $ 30 MD nel tentativo, “suggerito” dalla FED, di salvare il salvabile…(peraltro “poca roba”, vista l’entità delle uscite – $ 100 MD – di cui si è detto poco sopra).
Da quanto si è visto nella giornata di ieri (gli Stati Uniti non festeggiano il 1 maggio), Wall Street è sembrata apprezzare l’intervento di JP. Morgan: gli indici USA, infatti, hanno chiuso praticamente sulla parità, mentre il titolo di JP. Morgan è salito di circa il 2%.
Questa mattina, pur non “stappando champagne”, borse asiatiche in rialzo. Chiusa la Cina, a Tokyo il Nikkei sale dello 0,11%, mentre a Hong Kong è in progresso dello 0.26%.
Fa eccezione la borsa di Sidney, in ribasso di circa lo 0,7% dopo che la Reserve Bank of Australia ha, cogliendo tutti un po’ di sorpresa, ha deciso di innalzare i tassi dello 0,25%.
Futures poco mossi ovunque.
Deboli le materie prime:non si smuove dall’apatia il petrolio, con il WTI a $ 75,47 (- 0,36%).
Gas naturale Usa a $ 2,31 (- 0,52%).
Non si muove l’oro, fermo a $ 1.993,10.
Spread a 188,2, con il BTP sempre intorno al 4.25/30%.
Treasury Usa a 3,52%.
€/$ a 1,099, poco mosso.
Bitcoin in ripiegamento verso i $ 28.000 (20.,038).
Ps: anche per l’arte è arrivato il momento della “parità di genere”. Da sempre, le opere più costose sono quelle a firma “maschile”. La base d’asta per una scultura di Luise Bourgeois, artista francese nata nel 1911 e morta nel 2010, è infatti di $ 40 ML, la più alta mai fatta registrare da un’artista femminile.